Tutti conosciamo l’intelligenza artificiale, ma solo in pochi sanno come è nata e si è sviluppata, traendo molte idee, teorie e tecniche da altre discipline. In particolare l’IA ha ereditato dalla filosofia i concetti relativi al dibattito sulla natura dell’intelligenza e della razionalità, dalla matematica l’approccio logico e dalla psicologia gli studi sulle relazioni fra conoscenza e azione. 

È grazie però alla cibernetica e all’informatica che l’intelligenza artificiale nasce realmente. Innanzitutto per sviluppare l’intelligenza artificiale serviva un sistema in cui riprodurre, simulandoli, i fenomeni dell’intelligenza. Serviva dunque un elaboratore basato sul concetto di macchina di Turing, un sistema concettuale che può trovarsi in un numero finito di stati diversi e svolgere un numero limitato di azioni. 

L’intelligenza artificiale nacque ufficialmente nel 1956, durante un seminario estivo organizzato presso il Dartmouth College di Hanover, nel New Hampshire. Qui un gruppo di studiosi si riunì per discutere l’ipotesi che ogni aspetto dell’intelligenza potesse essere descritto così precisamente da rendere possibile la sua simulazione tramite una macchina.  Si sviluppò così una nuova disciplina che il matematico John McCarthy, professore a Dartmouth tra gli organizzatori del seminario, pensò di battezzare appunto “intelligenza artificiale”. Il seminario si basava sul brainstorming, cioè su un dibattito aperto e poco strutturato: grazie ad esso si giunse a un nuovo approccio teoretico che mirava a stabilire come riprodurre l’intelligenza con un elaboratore elettronico.  

Negli anni successivi si raggiunsero diversi successi, anche grazie ai considerevoli miglioramenti dei supporti informatici utilizzati.  In particolare si svilupparono due tendenze: un gruppo di ricercatori si interessò alla simulazione dei processi cognitivi umani attraverso l’elaboratore (il cosiddetto paradigma della simulazione), mentre un altro gruppo si dedicò al raggiungimento della migliore prestazione possibile per i programmi, indipendentemente dal fatto che essa potesse essere realizzata con procedure simili ai procedimenti umani (paradigma della prestazione o dell’emulazione). 

Il paradigma della prestazione produsse risultati importanti, come i primi programmi per il gioco della dama e degli scacchi. I ricercatori però si accorsero, poco dopo, che i metodi adatti ai casi semplici non funzionavano in contesti più complessi e ampi.  Queste difficoltà portarono, a partire dal 1970, a concentrarsi su aree più specifiche di competenza, con l’invenzione dei primi sistemi esperti, in cui è fondamentale la conoscenza dettagliata di un particolare contesto. La conoscenza non era più legata, quindi, soltanto alla comprensione teorica del problema, ma anche all’esperienza. In un sistema esperto l’unione di questi due elementi, presenti in un esperto umano di uno specifico settore, è codificata in modo che l’elaboratore possa risolvere problemi simili a quelli affrontati dall’uomo.  

Successivamente, all’inizio degli anni Ottanta, è nata l’idea dell’intelligenza artificiale come industria. Negli ultimi anni essa è stata caratterizzata da molti cambiamenti, sia di metodo sia di contenuti. Attualmente si usa partire da teorie già esistenti invece di inventarne di nuove, basandosi dunque su teoremi dimostrati o su evidenze sperimentali. Ciò che rimane dell’intelligenza artificiale così come è nata è la pluralità di approcci. Oltre al solito approccio logico della rappresentazione della conoscenza, ha assunto importanza anche quello subsimbolico, che mira a portare i sistemi di intelligenza artificiale a compiere prestazioni intelligenti anche senza una rappresentazione dettagliata della conoscenza. Questo approccio si basa su una visione dell’intelligenza artificiale che sia capace non soltanto di pensare, ma anche di agire razionalmente. 

Nata come risultato di una caratteristica intrinseca dell’uomo, cioè il costante tentativo di imitare e di riprodurre se stesso e la natura, oggi l’IA appare a molte persone, abituate ad avere tutto e subito, come un’allettante possibilità: quella di delegare sempre e quante più cose, rischiando di arrivare quasi a delegare lo stesso atto di pensare. 

Vittoria Recchia